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mercoledì 31 dicembre 2008

Le comari

Tra gli stretti vicoli del paese, ad una certa ora, tacitamente concordata, si affacciavano le comari, chi con l’uncinetto, chi con il fuso e con la lana, chi con lago e con il lino da ricamare, sedute sui gradini di una scala esterna, sull’uscio di casa o sul “gaffio” (piccolo terrazzo che circonda il portone d’ingresso) iniziavano a lavorare ed a chiacchierare. Le loro parole erano brevi, più capite a cenni che per udito. E i discorsi erano quasi ogni pomeriggio sempre gli stessi: l’andamento del raccolto, le magagne di qualcuno, i problemi della vicina, la previsione (di solito) catastrofica di un qualche avvenimento.E mentre le donne più anziane impartivano consigli e comportamenti alle più giovani, i bambini, scalzi, scorrazzavano per le viuzze, insieme alle galline, ai cani ed a qualche gatto.Non appena il cicalare pomeridiano veniva interrotto dallo squillo delle campane, le comari si facevano devotamente il segno della croce e ad una ad una si ritiravano oltre gli usci per poi ritrovarsi sul vicolo addobbate per la funzione vespertina.Ma, quando queste donne così amiche e pie bisticciavano, ecco che il rione si trasformava in un teatro, gonfie di rabbia urlavano a vicenda:



Si janca e russa cume na liona



Si janca e russa cume na liona Sei bianca e rossa come una tartaruga

si carricata i rugna canina sei piena di scabbia canina

quannu camini a trippa ti sona quando cammini la pancia suona

cume na vacca lenta allu pinninu. come una mucca magra che scende per un pendio



Mussa nigra



Affaccia a sta finerra Affacciati a questa finestra

mussa nigra muso sporco

scinna a ra funtana scendi alla fontana

ca tu lavi così te lo lavi

cu nu pezzu di sapune ca ti dugnu con un pezzo di sapone che ti do.

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martedì 30 dicembre 2008

La ginestra

Era giugno, con la sua calura, a dire alle donne che era arrivata l’ora di raccogliere la preziosa ginestra. L’alba non era ancora spuntata quando, le allegre comari, si addentravano nella campagna, tra i rovi, le stoppie e le cicale che stridevano. Al primo raggio di sole, erano già lì, curve o distese bocconi sulla roccia, e cantavano e lavoravano e lavoravano e cantavano:

Pi ra via de la foresta (Canzone cantata insieme da uomini e donne al lavoro)

Pi ra via de la Foresta l’incontrai Per la via della Foresta l’incontrai
ferma quatrara che sarai la mia fermati ragazza perché sarai la mia
fermati, amore mio, non mi toccare fermati, amore mio, non mi toccare,
ca si mi tocchi fai gran pene a mmia che se mi tocchi mi farai un gran torto
tu venacci stasira a ra tardata vieni stasera sul tardi
quannu mamma nun c’è ca fora è juta quando mia mamma non c’è che fuori è andata
rapera, bella mia, sugnu arrivatu apri, bella mia, sono arrivato
mò ca mammitta nun c’è ca fora è juta adesso che tua mamma non c’è che fuori è andata
tu si ddi fora e gira li mura tu sei fuori e gira attorno ai muri
io di dintra sugnu bon serrata mentre io sono dentro ben chiusa.
mi l’à saputa fare gran mmarrata mi hai saputo ingannare da gran maestra
ma à ddi venire u tempu di l’uva ma arriverà il tempo dell’uva
quannu le donne belle vannu fora quando le belle donne escono fuori
bonu venutu u tempu di l’uva benvenuto il tempo dell’uva
iu mi pigliu li frati mii e vaiu fora io prendo i miei fratelli ed esco fuori
si li tui frati forano liuni se i tuoi fratelli fossero leoni
li petri di la via spati e cartella le pietre della strada diventerebbero spade e coltellie
tu tannu ti gudi a mmia, giuvane bellu, e tu allora ti godrai me, giovane bello,
quannu mi porti a fede e l’anellu. quando mi porti la fede e l’anello.
U suli ha puatu a tumma
E ru suli ha pijatu a tumma Il sole sta tramontando
a ra patruna li cada ra vrogna la padrona inizia a dispiacersi
e ra vrogna ti vo calari e il dispiacere ti venga pure
e chissa è l’ura du scapulari. ma questa è l’ora di andare via.
I piedi nudi scottavano e sanguinavano, le mani annerite si screpolavano, le gambe venivano lacerate dai pruni, ed il collo, il viso, le braccia, erano esposti al sole. Quando tutta la ginestra era stata raccolta, veniva portata sul letto del fiume, dove grandi calderoni ricolmi di acqua bollente la attendevano. Una volta bollita, la rigogliosa pianta era pronta per essere sfilata. Le donne iniziavano a sfibrarla strofinandola sotto i piedi contro la roccia, poi le fibre venivano strappate filo per filo e battute nella maciulla ed infine messe ad imbiancare al sole. Era il piacevole tepore del focolare, poi, ad illuminare il lavoro delle filatrici e delle tessitrici .... e così, da agosto a dicembre, dalla pianta si arrivava al tessuto. Le puerpere e le vecchie nonne, invece, non si avventuravano tra i rovi, ma avevano il privilegio di poter restare a casa.www.galkroton.it/verzino/default.asp

lunedì 29 dicembre 2008

Salsiccia&Companions

La nostra tradizione Calabrese prepara la salsiccia utilizzando le parti magre del maiale (la rifilatura della spalla, del filetto, del prosciutto) di seconda scelta (la prima scelta è utilizzata per le soppressate) tagliuzzate a mano, tritate e mescolate con grasso (7-10% per ogni 500 grammi) ed ingredienti aromatici naturali: pepe nero macinato, peperoncino rosso dolce o piccante, finocchio selvatico. La salsiccia Calabrese è un salame insaccato in budelle naturali di suino, successivamente forate e lasciate riposare per poche ore in ambienti ventilati; la sua stagionatura dal momento dell’insaccamento al consumo in tavola avviene per un periodo di almeno 30 giorni. Al taglio è a grana media, con grasso ben distribuito; il profumo è più o meno intenso ma naturale.La salsiccia Calabrese viene consumata affettata a mano, come antipasto, ma anche a pezzetti cotta nel ragù o lessa con le verdure. Salsiccia suina con semi di finocchio selvatico e peperonata con polvere dolce o piccante. Tipica Calabrese. I Salumi in Calabria rappresentano l'alimento dominante è fondamentale per la Gastronomia Calabrese.Intorno al maiale e alla sua macellazione si è sviluppata nei secoli una tradizione popolare e di usanze, a volte anche diverse tra un comune e l'altro, il denominatore comune è il peperoncino piccante.La macellazione di questo animale era inevitalmente una festa in cui il maiale rappresentava il sacrifico.Ricopre anche molto importanza l'arte della macellazione, il metodo di come scegliere la carne adatta al tipo di salume che si vuole avere, infatti: dall'arte della macellazione derivano i salumi tipiciLa salsiccia Calabrese viene prodotta dalla selezione di parti magre del maiale, un pò di grasso e pepe nero macinato, peperoncino rosso dolce o piccante, finocchio selvatico a seconda del tipo di salsiccia.Il guanciale è simile alla pancetta, si ricava dalla parte della guancia e della gola del maiale. Il sapore da abbinare ad insaporire sughi come l'amatriciana e la carbonara. Il guanciale viene lavorato e ricoperto di peperoncino e fatto stagionare per tre mesi.La soppressata resta pero la regina in quanto si scielgono per la sua preparazione solo carne magra .

La settimana dopo il matrimonio

Questo periodo era alquanto strano e singolare. Gli sposi dovevano segregarsi in casa e non avere contatto con nessuno. La madre dello sposo ogni mattina portava loro il caffè, il latte , le uova..... Solo il giovedì, a tarda sera, facevano una breve visita ai rispettivi genitori, per tornare a rinchiudersi sino alla domenica. In quel giorno lo sposo e la sposa, agghindata per l’occasione con un elegante vestito e con una collana di perline legata da tre nastrini, si recavano a messa per ricevere la benedizione del parroco. In questa occasione si diceva che la sposa era “nesciuta i zita”. Uscendo dalla chiesa, andavano a casa dei genitori della sposa, dove venivano trattenuti per il pranzo.Ora la giovane moglie aveva una sua famiglia e, se qualche sciagurato uomo la insidiava, ella poteva con fermezza cantargli:



Nun me veniri appressu sciaguratu


Nu mme veniri appressu sciaguratu Non seguirmi sciagurato

c’haiu l’anellu e sugnu maritata. che ho l’anello e sono sposata.

Ca ‘ncunu jurnu si ti vida fratima Qualche giorno se ti vede mio fratello

ti rumpa l’occhi e ti spunta ri corna. ti rompe gli occhi e ti spunta le corna.

Sugnu la cchiu felici di li mammi Sono la più felice delle mamme

nu bellu maritu un bel marito

na casa formata. una casa sistemata.

A tutta a casa mia Per tutta la mia casa

cci su ‘mpicati ci sono appese

sazizzi, pruvuluni e supprissati. salsicce, provoloni e soppressate.

Tegnu nu lettu i lana cu ri molli Ho un letto di lana con le molle

e m’azu e curcu quannu vogliu iu e mi alzo e corico quando voglio io

e mo chi tegnu ssu beni i Diu e adesso che ho questo ben di Dio

vida si pozzu fari fissirie. vedi un po’ se posso fare pazzie.


Mentre il marito, pieno di gelosia, raccomandava alla bella moglie:


Idolo amore mio, simmi reale



Idolo, amore mio, simmi reale, Idolo, amore mio, sii a me fedele,

tu a fare cume dicu iu, tu devi fare come dico io,

cu certa gente un ci praticare con certa gente non ci devi praticare

massimamente cu chine un boglio iu, soprattutto con chi non voglio io,

mancu i l’acqua ta fare tuccare, neanche dall’acqua ti devi fare toccare,

puru di l’acqua portu gelusia, che pure dell’acqua sono geloso,

ca l’acqua è fridda e ti pò muzzicare che l’acqua è fredda e ti può mordere

puru pò fare l’amure cu ttia, anche può fare l’amore con te,

ca si vò acqua ppi tti lavari che se vuoi acqua per lavarti

sangue ti dugnu di li vene mie, sangue ti do delle mie vene,

a tuvagliella ppi ti cci stujare l’asciugamano per asciugarti

na pinnicella di lu core miu. una penna del cuore mio.

Ora questa moglie e mamma doveva pensare al corredo della sua piccola bambina. Era necessario raccogliere, filare e tessere la ginestra, pianta, allora, usata dalle famiglie più povere per la tessitura di qualsiasi indumento. Le più benestanti, invece, solevano usarla solo per la tessitura dei sacchi, preferendo per il proprio corredo lana e cotone.
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Il matrimonio

La domenica tanto attesa lo sposo, accompagnato dai suoi invitati, raggiungeva la casa della sposa e da lì tutti insieme si recavano in chiesa. Accanto alla sposa si accostava il compare d’anello reggendo il piattino contenete le fedi nuziali da lui donate. Dopo la cerimonia, era lo sposo che conduceva alla casa paterna la sua diletta sposa, ormai sua moglie. Tutti i parenti e gli amici, affacciati ai balconi e alle finestre, lanciavano sugli sposi grano, confetti e monetine. Il corteo, passando sotto gli archi (da finestra a finestra venivano tese capaci corde sulle quali erano appese le coperte più belle), raggiungeva la casa della sposa dove si dava inizio ai festeggiamenti. Dopo canti, balli e cibo, quando tutto si placava, iniziava la serenata:


Stilla lucente


Stilla lucente di luci a sira Stella lucente di luce la sera

quantu bella mi pari a matina quanto bella mi sembri al mattino

quannu ti viu avanti a porta quando ti vedo davanti alla porta

d’oru mi pari n’angela divina, d’oro mi sembri un angelo divino,

beatu chine ha furtuna e meglia sorte beato chi ha fortuna e sorte migliore

i ti godere a tia stella mattina, di goderti stella mattutina,

eju l’amaru ca nun tegnu sorte mentre io, l’infelice che non ha sorte,

tiru na rosa e mi vena na spina. tiro una rosa e mi viene una spina.

Quannu nascisti tu fonti i billizzi Quando tu nascesti fonte di bellezza

mammata parturiu senza duluri tua madre ti partorì senza dolore

si nata chilla notte d’allegrezza sei nata quella notte d’allegria

chi li campane sunavanu suli, quando le campane suonavano da sole,

a niva ti dunau i sue bianchizzi la neve ti donò il suo candore

e ra cannella u bellu sapuri e la cannella il buon sapore

u pipa ti dunau a fortilezza il pepe ti donò la forza

a rosa russa u bellu culuri. la rosa rossa il bel colore.


O rosa russa fatti mazzi mazzi Oh rosa rossa fatta a mazzi

colonna lavurata di billizzi colonna lavorata di bellezze

quannu mi guardi cu st’occhi m’ammazzi quando mi guardi con questi occhi mi ammazzi

focu ma misu curi tue bellizzi fuoco mi hai messo con le tue bellezze

eju dormu subra sette materazzi io dormo sopra sette materassi

riposu nun ni pijo a nullu pizzo ma riposo non prendo da nessuna parte

vorra durmire n’ura a ri tue vrazzi vorrei dormire un’ora fra le tue braccia

pi bidare cum’è sta cuntentizza. per capire com’è questa gioia.

Janca palumma mia si senza feli Bianca colomba mia sei senza cattiveria

comu discenni di sangu riali come discendi tu da sangue reale

a caminata tua è subra i veli la camminata tua è sopra i veli

a pidatella tua nterra nun para l’impronta tua sulla terra non appare

si v’ho li scarpi ti li fazzu fari se vuoi le scarpe te li faccio fare

d’oru e d’argentu a mpigna e ra sola d’oro e d’argento la tomaia e la suolae

chillu marru chi ci fazzu fari e quel calzolaio che le farà

ppi siggillu ci mpizza ru miu cori. per sigillo ci scolpisce il mio cuore.


Il compare d’anello ringraziava i suonatori, offrendo una bottiglia di liquore che poi, vuota, frantumava sull’uscio della casa degli sposi gridando: “aguri e figli masculi”


Il letto

U lettu


Il giovedì prima del matrimonio, veniva addobbato il letto dove i futuri sposi dormivano la prima notte. Il letto veniva “parato” da tre donne: una sposata con un bambino in braccio, una vergine ed una anziana. Sopra la coperta, tessuta per l’occasione, venivano deposte uova, sale, zucchero, riso, confetti e i “‘mmuccellati”, dolce tipico del luogo simile ai mustacciuoli, a cui si davano particolari forme bene auguranti. Gli sposi non potevano assistere a questa cerimonia.

Publicazioni di matrimonio

U Vanniamentu


Arrivava, poi, il momento in cui i due giovani promessi sposi dovevano presentarsi al cospetto del sindaco per la “prima richiesta”, cioè la richiesta di pubblicazioni del matrimonio. La cerimonia avveniva di solito al mattino ed aveva inizio nella casa dello sposo da dove, sempre in corteo, con parenti ed amici, si andava a prelevare la sposa. Per l’occasione la fidanzata riceveva “a parata” (orecchini, collana, anello, spilla, bracciale d’oro). Dopo che la sposa si era adornata con gli ori appena ricevuti, il corteo raggiungeva la Casa Comunale. Trascritti gli atti, sugli sposi si riversava una pioggia di confetti.

domenica 28 dicembre 2008

Il fidanzamento

Il giorno del fidanzamento nella casa dello sposo si concentravano i parenti più intimi e tutti, in corteo, preceduti dai ragazzi che portavano delle fiaccole e da alcuni suonatori con mandolino e chitarra battente, si recavano alla casa della sposa a fare “a ‘mmasciata”. Lì veniva concordata la dote e fissata la data delle nozze. Dopo che il fidanzato donava alla sua promessa sposa un anello, si aprivano le danze e si iniziava a ballare, a mangiare ed a cantare:

Stilla i prima sira
Stilla i prima sira chi guardati stella di prima sera a chi guardate
sta donna sempre chiusa la tiniti, questa donna sempre chiusa la tenete,
si illa dorma nun la risbigliati se lei sta dormendo non svegliatela
dumani a jurnu mi la salutati. domani con il giorno me la salutate.

Zum zum zum
Zum zum zum na chitarra di culumbra Zum zum zum una chitarra di fico
e n’atra di cerasi un’altra di ciliegio
gioia mia cume te vasu gioia mia come ti bacio

Quanta è bella l’unna di lu mare
Quanta è bella l’unna di lu mare quant’è bella l’onda del mare
che nu mi dicia voglia di partire che mi fa venire voglia di non partire
che c’è na figlia di nu marinaru che c’è la figlia di un marinaio
tantu ch’è bella ca mi fa murire è così bella che mi fa morire
e ancuno jurnu ca m’haio arriscare e qualche giorno devo rischiare
ntra la barchetta sua voglio salire sulla barchetta sua voglio salire
tantu chi a vogliu stringere e vasare, e la voglio stringere e baciare
finu ca mi dicia fino a che non mi dice
“amore lasseme stare” “amore lasciami stare”

O rosa rossa

O rosa russa colorita e bella O rosa rossa colorita e bella
eju fossi u primo amore ca t’amai sono stato il primo ad amarti
t’amai ch’eri na piccola tonsella ti amai da quando eri un piccola ragazza
eri fanciulla e mi nne ‘nnammurai eri fanciulla e me ne innamorai

Quantu bella t’ha fattu la furtuna

Luce di l’occhi mii Luce dei miei occhi
quantu si bella quanto sei bella
quantu bella t’à fattu a furtuna quanto bella ti ha fatto la fortuna
ha fattu sì capilli anelli anelli ti ha fatto questi capelli anelli anelli
menzu lu pettu u sule e ra luna in mezzo al petto il sole e la luna
pigliu ppi l’abbrazzari cerco di abbracciarti
e abbrazzu u ventu! e abbraccio il vento!
mi risbigliu e mi vena u chiantu mi sveglio e mi viene il pianto
e ccu u stessu chiantu m’addurmentu e con lo stesso pianto mi addormento.

Affacciate a ra finerra capilli rizzi



Affacciate a ra finerra capilli rizzi Affacciati alla finestra capelli riccie
iettame nu garofanu i ssa grasta e buttami un garofano di questo vaso
si lu jetti io mi trovu lestu ca se lo butti io sarò veloce
ppe nun cadiri nterra mpu nsi guasta; da non farlo cadere a terra affinché non si sciupi;
ca mi lu stipu ppi megli festi, così me lo conservo per le feste migliori
,garofanu d’amure e tanto abbasta. garofano d’amore e questo mi basta.

A’ ssa ruga
A ‘ssa ruga c’era ppi ra via In questo rione c’era sulla strada
n’albero carricatu i diamanti un albero carico di diamanti
A ru ‘mmenzu na cima pennia Al centro un ramo pendeva
carricatella di rose janche pieno di rose bianche
a ra curina c’è a bella mia in cima c’è la bella mia
chi duna ri splendori a tutti quanti. che dona splendore a tutto quanto.
a ru pedale na fonte curria ai piedi una fonte sgorgava
cum’era duce e cum’era galante. com’era dolce e com’era raffinata.

Oh quant’è bella sta figlia e Massaru

Mmenzu sta ruga c’è na spuntunera In mezzo a questo rione c’è un angolo
di casajettari cci la vogliu na canzuna. dove cantare voglio una canzone.
Oh quant’è bella sta figlia e massaru, Oh quant’è bella questa figlia di “massaro”
tanti ch’è bella ca scura ru suli. è così bella che oscura il sole.
Quannu si spoglia un ci vò lumera, quando si spoglia non ci vuole lume
ca ccu ri carni sue s’allucia ssula. con le sue carni si fa luce da sola.

Acelluzzu chi vai u mari mari

Acelluzzu chi vai u mari mari Uccellino che vai per il mare
ferma quantu ti dicu due parole fermati il tempo di dirti due parole
quantu me tiru de st’ala na pinna, il tempo di tirarmi da quest’ala una penna,
fazzo na letterella a ru miu amore, e scrivere una letterina al mio amore,
ca po’ a dugnu a ru ventuambulare. poi la darò al vento.
Ventu portamiccella a ru miu amore Vento portamela dal mio amoreca
si lu trovi a tavola chi scriva e se lo trovi al tavolo mentre scrive
lassalu stare ca pensa a mia. lascialo stare perché pensa a me.
E si lu trovi a letto ca riposa Ma se lo trovi a letto che riposa
a ru pettu faccilla na magaria, al petto faglielo un incantesimo
una faccilla i focu bruciante uno faglielo di fuoco bruciantee
natra faccilla ca vò bene a mia. un altro faglielo così che possa volermi bene.
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Facciamo l'imbasciata

Facimmo a ‘mmasciata

L’innamoramento, il fidanzamento, il matrimonio, a quei tempi avvenivano seguendo riti ben precisi. Il giovane innamorato, durante la notte di Natale, prendeva uno dei tizzoni della fochera ed andava a deporlo, con cura, sull’uscio chiuso dell’amata. A giorno fatto, il pretendente ritornava trepidante, e, solo se il tizzone era sparito, poteva varcare quella porta e cantare una delle seguenti richieste di matrimonio:

Signu venutu a ti parrari chiaru Sono venuto a parlarti chiaro

Signu venutu a ti parrari chiaru, Sono venuto a parlarti chiaro,
si mi la dai a figliata o chi dici. se me la dai a tua figlia o che dici.
Si mi la duni ti chiamu mamma Se me la dai ti chiamo mamma
si ‘nno ti chiamo scellerata donna. se no ti chiamo scellerata donna.

Ohi Matrilla

Ohi Matrilla i prima sira chi guardati ? Signora di prima sera a chi guardate?
chista donna sempre chiusa la teniti. Questa donna sempre chiusa la tenete.
Vogliu sapiri si la maritati Voglio sapere se la sposate
o sempre schetta la tiniti. o sempre nubile la tenete.
Ohi ca si vena n’atru amanti e ci la dati Se viene un altro amante e gliela date
s’è cchiu bello di mia mi lu diciti. se è più bello di me ditemelo.
Ca poj cci acchiappamu a curtillati Così poi litighiamo con i coltelli
pe vidari chi porta ri feriti per vedere chi porta le ferite
ca si li portu io su sanati, perché se li porto io guarirò,
ma si li porta illu...è sippillitu. ma se li porta lui ....sarà morto.

Zuco Zuchillu

Zucu zuchillu chi va caminannu? Zuco zuchillo perché sei in giro?
Vaju girannu na mugliera sto cercando una bella moglie
u mi nni curu ch’edi piccirilla non mi interessa che è piccolina
basta chi tena ri minnuzzi belli basta che abbia il seno bello
e rrrica ru villicu ara majilla. e strofini con l'ombelico alla madia (cioè che sappia fare il pane)
Si t’ha nzurari pijatilla bella Se ti devi sposare prenditela bella
un ti nni nnammurari i rrobba e dinari non innamorarti di averi e denari
fa bonu si ta piji vasciuttella fai bene se la scegli bassa
bastica è dilicata di cintura basta che abbia la vita sottile
ca si ccià fari ancunu vestitellu perché se le devi fare qualche vestito
sparagni i sordi a ra maniffattura. risparmi soldi per cucirlo.

Oh Vagastilla!

Oh vagastilla, oh vaga di billizzi Oh vaga stella, oh vaga di bellezze
colonna di cristallu e filu d’oru colonna di cristallo e filo d’oro
quantu vala nu filu di sti pezzi quanto vale un filo di questi
u vala a spata i l’imperatori. non vale la spada dell’imperatore.
Sia mmalidittu chi cerca rricchizzi Sia maledetto chi cerca ricchezze
ricchizza cchiù di tija nun c’è trisoro. nessun tesoro può essere una ricchezza più grande di te.
Diciami cchi nni fai di ssi bellizzi Dimmi cosa ne fai di queste bellezze
si mammata nun ti vò maritari se tua mamma non ti vuole dare in sposa
venanu i matrimoni ed illa sgrizza vengono i matrimoni ed ella rifiuta
si cridica cu ru rre vò apparentari, pensa di darti in sposa al re,
cu rre un nni vo di ssi bellizzi ma il re non vuole queste bellezze
ca vo na barca carrica i dinari. vuole solo una barca carica di denari.

Se invece, il pezzo di legno, era ancora al suo posto, beh... allora la famiglia l’aveva rifiutato; l’unica cosa da fare era mettersi il cuore in pace e di notte andare, per dispetto, a cantare una canzone di sdegno:

Fimmina chi tradisti lu miu core Donna che tradisti il mio cuore

Fimmina chi tradisti lu miu core, Donna che tradisti il mio cuore
pi dire cu ‘n avia mezzi e putiri, perché non avevo mezzi e potere,
un dire ca ti spusi p’amure, non dire che ti sposi per amore,
sulu u fa pi carti i milla lire. perché lo fai solo per le mille lire.

Focu arde te cume t’astutasti

Oh focu ardente cume t’astutasti Oh fuoco ardente come ti sei spento
n’ura chi ti mancarunu li carbuni per un’ora che ti mancarono i carboni
ca jsti ppi t’azari e ti vasciasti cercasti di alzarti e ti riabbassasti
e ssi basciata trecentu scaluni. e ti sei abbassata di trecento gradini.
A quala sipurtura lu scavasti In quale cimitero lo trovasti
stu surchiavrodu e mangiamaccarruni questo “succhiabrodo” e “mangia maccheroni”
a si lu scontu mi lu mintu ntasca che se lo incontro me lo metto in tasca
muriri ti lu fazzu di paura. morire te lo faccio di paura.
Chi t’aju fattu lingua sirpintina Cosa ti ho fatto lingua di serpente
ca di la vita mia ni parri mali che della mia vita ne parli male
ohi chi ti vonnu fari a latte amaru ohi che possano tramutarti in latte amaro
li stintinella jettati ari cani le tue budella darle ai cani
l’ossa macinati aru mulinu le ossa macinate a quel mulino
c’à macinatu u megliu ranu che ha macinato il miglior grano
po cirnuti a nnu crivu suttile e poi passate a setaccio sottile
spurbariate pe ru campanaru. disperse al vento dal campanile.
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sabato 27 dicembre 2008

Storia del peperoncino




Quando Cristoforo Colombo scoprì l'America, non solo non si rese conto di avere raggiunto un nuovo continente ma ancor meno poté immaginare che la scoperta di alcune specie vegetali avrebbe così profondamente interagito con gli usi ed i costumi dei popoli del Vecchio Continente. Bisogna infatti ricordare che nell'ambito della famiglia delle solanacee, di cui fa parte il peperoncino, si trovano anche il pomodoro, la melanzana, la patata e il tabacco.In realtà le origini del genere vegetale "capsicum" ( dal latino 'capsa' = scatola, per la forma dei frutti) si fanno risalire ad un'epoca abbastanza remota: pare che il peperoncino sia apparso per la prima volta circa 9-10000 anni fa nel Messico centro-meridionale e di lì si sia diffuso in America centrale e nella parte settentrionale dell'America del Sud.I nativi americani utilizzavano il peperoncino raccolto da piante selvatiche già nel 5000 A.C. e sembra che la sua coltivazione fosse praticata già a partire dal 3500 A.C..Cristoforo Colombo portò in Europa alcuni esemplari di peperoncino al ritorno da un suo viaggio intorno al 1493, e li chiamò "pimentos" in quanto riteneva che, per la loro piccantezza, potessero essere un sostituto del pepe (pimiento in spagnolo), spezia allora assai costosa e di difficile coltivazione.All'epoca della sua scoperta, il peperoncino si era già differenziato in circa una dozzina di varietà che venivano coltivate dagli Atzechi per usi alimentari, medicamentosi e rituali.In Europa l'accoglienza delle nuove specie vegetali fu abbastanza tiepida in quanto si riteneva che i frutti della famiglia delle solanacee fossero nocivi alla salute -ed in effetti parecchi lo sono- e pertanto queste nuove piante vennero impiegate per anni esclusivamente a scopo ornamentale.Solamente verso la metà del 1600 i cuochi europei iniziarono ad utilizzare in cucina patate, pomodori o melanzane, ma con molta cautela.Il peperoncino, al contrario, iniziò a diffondersi in Spagna e Portogallo già a poche decine di anni dalla sua scoperta e si propagò ben presto ai paesi costieri del Mediterraneo, portato da commercianti o marinai. Dal Mediterraneo, grazie alle grandi crociere esplorative di quel periodo, il peperoncino si diffuse dapprima in Africa meridionale e successivamente in India ed in estremo oriente entrando rapidamente a far parte integrante delle varie culture gastronomiche di questi paesi.Per un curioso paradosso molte varietà che si erano nel frattempo differenziate in Europa furono reimportate in America durante la colonizzazione del continente da parte di Francesi, Inglesi, Portoghesi e Spagnoli, dando origine ad abitudini culinarie 'fusion', si pensi ad esempio alla cucina creola- cajun, o a quella tex-mex o al largo uso del peperoncino nella cucina centro e sudamericana.Ai nostri giorni sono conosciute circa 26 specie di peperoncino ma le uniche ad essere coltivate per uso alimentare o industriale sono 5: Capsicum Annuum(es. Jalapeno, Caienna), Capsicum Frutescens (es. Tabasco), Capsicum Chinensis (es. Habanero), Capsicum Baccatum (es. Cappello del Vescovo o Bishop Crown) e Capsicum Pubescens (es. Rocoto).http://www.feelingrose.com/ParliamoDi/PEPERONCINO/storia_del_peperoncino.htm

sabato 20 dicembre 2008

Alla luce di una candela



Ripensando alla mia infanzia mi sono tornati in mente tanti eventi,che per ricordarli ti devi impegnare,devi aprire non so quale cassetti della memoria,eppure ci sono. Stanno li per molto tempo,indeterminato,poi tutto a un tratto li senti venire fuori,prima piano però poi tutti ,freneticamente.Anni 80, inverno,neve,pioggia,Verzino;cosa succedeva?Negli anni 80" nel nostro paese,quando pioveva o nevicava abbondantemente, si interrompeva l'energia elettrica,cosi spesso che era in uso dire:"quanno piscia a gallina,s'astuta a lampadina".Per noi bambini,la neve era solo motivo di gioia, gli adulti dovevano superare i disagi portati dalle abbondanti nevicate di quei tempi,in più i disagi dovuti dall'interruzione dell'energia elettrica,che non era per ore,non era di giorni,ma era di alcune settimane.Ora voi direte:non è possibile?Ma io e i miei compaesani sappiamo che è la verità.Voglio tralasciare i disagi diurni e soffermarmi volutamente su quelli notturni.Disagi? A ripensare oggi a quelle serate non posso parlare di disagi,ma di piacevole scorre del tempo,scandito dallo scoppiettio del fuoco acceso nel camino,allora unica fonte di calore nelle case e posto dove la famiglia si riuniva senza che nessuna riunione era stata indetta.Quello che mi torna in mente con più forza è l'atmosfera nella quale si trascorrevano quelle serate.Tutti voi non potete saperlo,solo immaginarlo,e non è la stessa cosa.In quelle sere l'atmosfera era quasi magica,ombre che si riflettevano sui muri,cene nella penombra,andare a letto e tutto alla luce di una candela.

mercoledì 17 dicembre 2008

Il maiale "u porco o purcello"

Ragione di letizia, durante le feste natalizie, era anche la mattanza del maiale. Per l’occasione infatti si faceva festa, la carne abbondava in famiglia, parenti ed amici sedevano allo stesso tavolo assaporando gustose pietanze a base di carne innaffiate da vino generoso. Il maiale, nero, veniva allevato in apposito porcile, nutrito con i rifiuti della cucina, dell’orto, del frutteto. Ogni singola parte dell’animale veniva riutilizzata, conservata, trasformata. L’allevamento non era costoso e il maiale forniva grassi, carni insaccate, prosciutti per un intero anno. Era consuetudine mandare “ u ratu”, cioè un pezzo di filetto e di fegato, a persone di riguardo, da cui si era ricevuto un beneficio, oppure ai parenti ed agli amici verso i quali ci si sentiva più intimamente legati; questi ultimi, a loro volta, avrebbero contraccambiato il dono, quando avrebbero sgozzato il loro maiale.





L’omino aru munno tre vote è cuntento:--------- L’uomo nel mondo 3 volte è contento:


quannu ammazza u porco, sona e canta; -------quando uccide il maiale, suona e canta;


quannu si fa a varba, nu mumentu, ------------quando si fa la barba, per un istante,


quannu se ‘nzura ppé na vota tantu. ------------quando si sposa una volta tanto.


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Capodanno


La notte di Capodanno gli uomini solevano riunirsi e con la chitarra battente, giravano per le case a cantare “a strina”. Per prima cosa lodavano la padrona di casa:

A Srina.................................................. .........La strenna

Cara signora vi simu venuti ...........................Cara signora siamo venuti

ppi mille vote siavu a ben truvata ................... per mille volte siate la ben trovata

nu mazzu i garofani juruti ................................un mazzo di garofani fioriti

cchiù di lu mustu v’urdura ru jatu ................... più del mosto vi profuma il fiato

Guardatela mo vena ----------------------Guardatela adesso arriva

a casa casa para na regina -----------------attraversando la casa sembra una regina

a na mano porta na lumera ---------------- in una mano porta un lume

a natra mano na valente strina” -----------nell’altra mano una valente strenna



poi gli elogi venivano rivolti al marito:



Menzu sta casa penda nu truncune -------In mezzo a questa casa pende un tronco

a vorru maritu u via nu barune --------- che vostro marito sia un barone

Haiu fattu votu a Santu Vitu ------------Ho fatto voto a San Vito

Iddiu vi guardi stu bellu maritu ----------Dio vi guardi questo bel marito

Haiu fattu votu a San Giuseppe ---------Ho fatto voto a San Giuseppe

a porta chiusa si trova aperta.” ---------la porta chiusa si trova aperta.



I padroni, infine, dovevano ringraziare offrendo da bere.http://www.galkroton.it/verzino/default.asp


martedì 16 dicembre 2008

Natale

La festa iniziava il giorno di Santa Lucia con la preparazione dei dolci natalizi “i crustuli” e i “cullurelli”; con un po’ dell’impasto di questi ultimi si realizzava, prima della frittura, una croce sul camino in segno di buon auspicio.Durante la notte della Vigilia, avveniva uno strano e suggestivo raduno, ogni famiglia del luogo portava davanti alla Chiesa un grosso ceppo di legno. Dei ciocchi si faceva un’enorme catasta e, calate le tenebre, vi si dava fuoco. Mentre il rogo ardeva, le donne, gli uomini, i vecchi ed i bambini, che in allegria vi assistevano, allietavano la notte cantando:


E’ la sira di Natale E' la sera di Natale


E’ la sira di Natale, E’ la sera di Natale,

c’è na festa principale c’è una festa importante,

e nu voe e n’asinello c’è un bue ed un asinello

San Giuseppe vecchiarello. San Giuseppe vecchierello.

San Giuseppe nun durmiri San Giuseppe non dormire

ca Maria a’ ddi parturiri, che Maria deve partorire,

a’ddi fari nu Bumbinellu, deve fare un Bambino

iancu, russu e turchinellu. bianco, rosso e turchino.

U mintimu subra l’atari lo mettiamo sull’altare

tutti l’angiuli a cantari, con tutti gli angeli a cantare,

a cantari ccu bella vuce a cantare con soave voce

o Maria quantu si duce o Maria quanto sei dolce

e ssi duce n’zuccherata, e sei dolce come lo zucchero

o Concetta ‘Mmaculata.” o Concetta Immacolata.


Anche le case erano illuminate da un grande fuoco che doveva ardere tutta la notte. Il capofamiglia collocava nel camino un grosso ciocco recitando una preghiera e pronunciando parole di augurio, con segni di croce e benedizione. Accanto al ceppo venivano poste vivande e dolci: Gesù Bambino sarebbe venuto a mangiare non appena tutti sarebbero andati a dormire.http://www.galkroton.it/verzino/default.asp

Verzino kr-Tradizioni

La festa religiosa era il momento in cui si manifestava maggiormente il folclore del popolo. Il Natale, il Capodanno, l’Epifania, il Carnevale, le Palme, la Pasqua, ripetevano ogni anno le ataviche tradizioni ricevute in eredità dai padri a cui tutti, malgrado il mutare dei tempi, sono ancora legati. Anche gli avvenimenti più importanti della vita seguivano il calendario religioso. Era, infatti, durante tali periodi che si trovava marito, ci si sposava, si battezzavano i propri bambini. Nello stesso tempo si faceva baldoria, si mangiava, si beveva, si cantava e si stava tutti insieme.http://www.galkroton.it/verzino/default.asp

La via dell'emigrazione

Una volta debellato il brigantaggio, fra il 1870 e il 1880, fu attuato un vasto programma di lavori pubblici durante il quale i nostri antenati conobbero anni di relativo benessere. In detto periodo fu iniziata la strada Verzino-Savelli.L’Italia unita, non aveva saputo risolvere con larghezza di vedute il problema vitalissimo delle terre, il nuovo Governo aveva preferito, purtroppo, ignorarlo. “Quando i nostri contadini, i cui orizzonti con le strade, con le scuole, con il servizio militare si erano allargati, si resero conto che il Governo, nel quale avevano posto tante speranze, non aveva la minima volontà di alleviare la loro secolare miseria, decisero di cercare altrove il loro pane.” I lavori pubblici erano finiti e tornava la miseria. E “quando la miseria è tanta, o brigante o emigrante”. Non si poteva tornare indietro col brigantaggio, inizia l’emigrazione.E i nostri antenati, lasciata ogni speranza di poter avere soddisfazione attraverso la distribuzione dei beni demaniali che venivano invece venduti e comprati quindi dai ricchi che avevano il denaro disponibile, cercavano nell’emigrazione l’unica possibilità di vivere.Il flusso migratorio, iniziato sul finire dell’800, si indirizza prevalentemente, per una serie di circostanze sfortunate, verso il Sud America. Fu, quindi, un’emigrazione di poveri verso paesi poveri che molto non potevano offrire.Solo dopo il 1960 l’emigrazione si orienta verso il nord Italia, in Svizzera, nei paesi del M.E.C.Il fenomeno migratorio, pur rappresentando una grave perdita, in quanto a partire erano gli elementi migliori, ebbe pure i suoi lati positivi. Spesso il contadino, dopo alcuni anni, ritornava al paese natio e con il gruzzolo guadagnato a prezzo di stenti e di sacrifici, acquistava questo o quel terreno vicino al paese. Diventava così un piccolo proprietario e vedeva realizzarsi un suo lontano sogno.http://www.galkroton.it/verzino/default.asp

lunedì 15 dicembre 2008

Secondo brigantaggio

Come reazione alle leggi dello Stato Unitario si sviluppa il secondo brigantaggio che, se pur non sanguinoso come il primo, funesterà a lungo le nostre contrade. Dopo decenni di lotte contadine, di lutti, di rovine, di privazioni, di speranze, si tornava come prima. I nostri antenati, durante questo lungo periodo, si erano opposti senza avere una tinta politica, ai dominatori di turno, a volte guidati, come abbiamo visto, da nobili figure di sacerdoti che pagarono con la vita il loro gesto. “Innalzavano la bandiera del bisogno, di quello quotidiano e di quello futuro, anche se accanto a questa bandiera ideale, a seconda dei tempi, agitavano ora il tricolore francese, ora il bianco vessillo borbonico o ancora la bandiera sabauda; in queste insegne, di volta in volta, ponevano le speranze di un riscatto economico e di un avvenire migliore”.Ma lo Stato Unitario rispondeva con una repressione spietata del brigantaggio, impiegando in vere azioni di guerra l’esercito regolare.Per dare un’idea del vasto impiego di forze dispiegate riportiamo un episodio che vide come protagonista uno dei tanti briganti, un certo Domenico Straface detto Palma, quello che alle Vigne di Verzino, per farsi una bevuta aveva bucato con un colpo di pistola la botte del Cavaliere Fazio. Questi, nella notte del 21 novembre del 1868, nei pressi di Casabona, riesce a sfuggire ad un accerchiamento di ben 273 uomini. Sarà tradito, qualche tempo dopo, da un amico mentre gli faceva la barba e la sua testa sarà consegnata al colonnello Milon che non era mai riuscito a catturarlo. Ci vorrà il 1876 per distruggere definitivamente il brigantaggio.http://www.galkroton.it/verzino/default.asp

1084 dal Regio Fisco sotto il Casato dei Barberio-Toscano

Il nuovo Barone si rivelò un uomo malvagio e soprattutto rapace, degno continuatore della stirpe dei famosi “lupi” che dissanguarono i nostri più lontani antenati. Spinto dalla cupidigia di acquistare il feudo, piano che gli riuscì nel 1804, non mancò, come Regio Conduttore prima e come barone poi, di rendere dura la vita ai coloni che già avevano perduto, a seguito dei diversi passaggi di amministrazione, molti diritti sui terreni feudali: di pascolo, delle acque, di allignamento ecc.Mentre i Borboni, per quanto fiscali, lasciavano vivere, il nuovo padrone si abbandonò ad ogni sorta di iniquità e di violenze che alimentavano le sofferenze degli abitanti del feudo e finirono per determinarne la ribellione. Incominciarono a protestare apertamente e nel 1796, quando Napoleone si affacciava in Italia, si mandò una delegazione a Napoli per rappresentare al re le misere condizioni di vita delle nostre popolazioni. A guidarla troviamo la figura di un coraggioso assertore dei diritti popolari, il sacerdote don Vincenzo Arcuri di Savelli all’epoca casale di Verzino, persona dotta e stimata da tutti per la sua condotta esemplare. La protesta irritò non poco il feudatario, che si vendicò in maniera spietata sul povero sacerdote. Fattolo catturare dai suoi scherani, venne esposto ad un feroce martirio.Si racconta che, fatti piantare due grossi pali per terra, ve ne fece legare un terzo di traverso, ad uso delle “Forche Caudine”. Cavalcò il povero sacerdote su un mulo con mani legate dietro la schiena e piedi legati sotto la pancia dell’animale. Dopo di che la bestia veniva sollecitata a passare sotto il giogo. Il povero sacerdote, ricevendo l’asse trasversale nello stomaco e non potendolo evitare, ebbe spezzata la schiena. Morì dopo lunga agonia. Altro episodio rivelatore dell’efferatezza e della mancanza di ogni spirito di carità nell’animo del feudatario è il seguente. In quegli anni, quando per le pessime annate agrarie la gente si nutriva di erbe raccolte nei campi, di focacce di lupini e di castagne, questo scellerato Nicola Barberio Toscano vendeva le sue riserve di grano ai Crotonesi per migliaia di tomoli.... La nobile figura del sacerdote Arcuri cadeva nel marzo del 1796; bisogna arrivare al 1812 per chiudere il lungo e sanguinoso elenco di vittime divise fra filo-borbonici e filo-francesi le quali, mescolando odi familiari e interessi privati, pagavano con atroci delitti un largo contributo di sangue alle lotte dei tempi, col miraggio di poter disporre, con l’applicazione della Legge eversiva della feudalità, di un pezzo di terra per sopravvivere.Cadono nella lunga lotta, durata ben 17 anni, cittadini, artigiani, sacerdoti, funzionari, molte donne. Questo sconvolgente periodo storico viene ricordato negli scritti degli storici come Primo brigantaggio in riferimento al Secondo che si riaccende dopo l’Unità d’Italia (1861).Il Congresso di Vienna e la conseguente restaurazione borbonica riportano il problema dell’occupazione delle terre allo stato precedente. Anche la ventata rivoluzionaria del 1848 viene intesa più che in senso politico-nazionale in senso economico-sociale. Per le nostre popolazioni era sempre vivo il problema delle terre e i moti rivoluzionari offrivano un’occasione favorevole per riprendere l’occupazione arbitraria delle terre già iniziata nel 1806 a seguito della Legge eversiva della feudalità. Il disordine, l’anarchia feudale, furono tali in quel periodo che ancora oggi si ricordano nel popolo con un senso di umorismo. Ne conseva memoria l’espressione “ è successo u quarantottu” cui si ricorre ancora oggi in presenza di situazioni confuse. Tra i tanti episodi significativi, eccone due che riguardano più da vicino le nostre zone. “... un tale Marco Marasco, detto “Marcuvisc”, contadino di Savelli, approfittando della situazione confusa, pensò bene di rendersi padrone della mandria del signor Giuseppe Maria Oriolo di Verzino. Portatosi a Camastrea, fugò i pastori che custodivano il numeroso gregge e lo guidò verso contrada Pino Grande, terreno comunale... Soddisfatto poi dell’opera compiuta, adunò attorno a sé i suoi numerosi figlioli e con lacrime di gioia disse loro: - Vi ho procurato la ricchezza, se ve la sapete mantenere, è vostra -. I figli, purtroppo, non seppero, né potettero far tesoro del poco saggio ammonimento paterno poiché, ristabilitosi l’ordine, la mandria tornò al legittimo proprietario”.L’altro episodio accaduto nel vicino Marchesato di Crotone lo leggiamo in G. B. Maone “... il 15 luglio del 1848 vengono sottratte al barone Baracco 15 mila pecore, in gran parte merinos, mille vacche, 600 animali cavallini, 600 bovi d’aratro, capre e porci..., vengono depredate perfino le scuderie con gli stalloni di razza, provocando un danno di oltre 200 mila ducati”.Si torna ancora a sperare con l’arrivo dei Mille, allorquando Garibaldi, il 30 agosto del 1860, proclamava da Rogliano l’uso gratuito del pascolo e della semina delle terre demaniali. Ma il proclama, il successivo 5 settembre, veniva revocato. Gli avvenimenti del 1860, del 1861 (proclamazione del Regno d’Italia) e degli anni successivi, “confondono nuovamente le idee ai nostri antenati, i quali, contemporaneamente, diventano briganti contro i Piemontesi, Guardie nazionali e Squadriglieri per combattere i briganti, combattenti nella Terza Guerra per l’Indipendenza contro l’Austria, a fianco dei Piemontesi”.Le leggi dello Stato Unitario sull’alienazione dei beni ecclesiastici non appagano la lunga e sofferta speranza e 80 anni di lotte: le terre, anziché ai contadini, vanno ad ampliare il già vasto latifondo baronale e i baroni, alla solita maniera, le danno in fitto e chiamano a zapparle i contadini. Praticamente si torna indietro all’incirca alla fine del 700: al divieto dell’uso delle acque, di allignare al secco e al morto, di passaggio, di pascolo ecc.http://www.galkroton.it/verzino/default.asp

Verzino sotto il Regio Fisco

Dopo la confisca operata dai Borboni ai danni del Duca Nicola Cortese macchiatosi di fellonia, il feudo di Verzino passava a far parte dei beni della Regia Corona. Correva l’anno 1746. I nostri antenati, sottratti alle unghie del rapace feudatario, conobbero un periodo di vita tranquilla e laboriosa, anche se di non lunga durata.Era costume in quel periodo storico che i feudi confiscati ai rei di Stato venissero amministrati da un Regio Generale Amministratore il quale provvedeva ad affittarli a persone di sua fiducia, chiamate Regi Conduttori. Così nel 1782 veniva designato in qualità di regio conduttore del feudo di Verzino, don Nicola Barberio Toscano da San Giovanni in Fiore.http://www.galkroton.it/verzino/default.asp

sabato 13 dicembre 2008

Verzino,Feudo sotto i Cortese

L’avo di questa discendenza, un tal Capitano Cortese, romano, annoiato delle sofferenze militari, per quieto vivere partivasi da Roma e veniva a finire in Cariati, dove stringeva amicizia col Principe Spinelli, feudatario di questa città. Un giorno il Principe ebbe bisogno di molto denaro e, non disponendo di tale somma, amichevolmente confidò la sua ambasciata a Capitan Cortese, personaggio oltremodo ricco per una straordinaria circostanza. Nel tempo che abitava a Roma, alloggiò in un palazzo il cui padrone e la famiglia tutta, erano periti di colera. Prima che fossero distrutti dal morbo, avevano nascosto ogni loro tesoro in una stanza la cui porta era simulata da un’immagine dipinta su una tela.Per sua ventura il tesoro fu scoperto dal Cortese che diventò così molto ricco. Diede pertanto al Principe amico il denaro di cui necessitava. Quando, trascorso molto tempo, questi volle restituire la somma, Capitan Cortese non l’accettò, facendo notare che non era il caso di preoccuparsene.Si racconta che il principe Carlo Antonio Spinelli, colpito da tanta generosità, per gratitudine, cedette a Capitan Cortese il ducato di Verzino con tutti i suoi diritti ducali. Divenuto Duca, il Cortese recossi subito in Verzino e là costruì il Palazzo del Campo.Nel racconto vediamo aleggiare la fantasia del nostro popolo, ma come ogni racconto popolare ha il suo substrato storico, anche in questo vi è un fondo di verità. Ne troviamo conferma nel Cedolario n°74(anni 1639-1695) dell’Archivio di Stato di Napoli “... il 22 di marzo del 1668 vendita et alienazione fatta da Carlo Antonio Spinelli, Principe di Cariati e Duca di Castrovillari, a beneficio di Leonardo Cortese della Terra di Verzino... per ducati 50.000”.Da un altro manoscritto si apprende, invece, che il Cortese, acquirente del feudo di Verzino, lungi dall’essere un generoso e sfaticato Capitano, era un intraprendente fornaio, che trasse la famiglia dall’oscurità commerciando oggetti di poco valore. Leonardo Cortese, il fornaio Barone, per poco tempo poté godere gli agi della ricchezza e della nobiltà, in quanto nel dicembre del 1675 cessava di vivere. Ne ereditava la baronia col relativo titolo, il figlio Niccolò Cortese.Carlo Giuranna, della vicina Umbriatico, appassionato cultore della storia dei nostri luoghi, così ne tratteggia la figura: “...uomo robusto, maneggiava le armi da fuoco con arte particolare, tanto da colpire, con una palla, i vasi d’acqua che le donne portavano sulla testa, senza queste ferire... e addosso sempre portava, quando usciva di casa, il suo pistone. Esercitava un perenne dispotismo sopra i beni e le persone degli abitanti di Verzino... teneva un orrido carcere dove, senza querela di parte, senza processo, senza ordine di giudice, chiudeva i poveri disgraziati ad anni interi e si scordava così degli innocenti come dei rei. Ai rivoltosi minacciava la morte perché tenea una manica di malandrini a suo servizio”.“Questo bel tipo di delinquente”, nel 1693, fu incoronato Duca di Verzino per graziosa concessione di Re Carlo II Borbone. Divenuto Duca, aumentarono le sue nefandezze.E ancora il Giuranna: “...un gentiluomo di quel tempo, Petruzzo Giglio, mal soffrendo gli aggravi, manifestò i suoi sentimenti ad un crocchio di amici. Le parole vennero riferite ed il castigo no si fece attendere. Dopo pochi giorni, ritirandosi detto Giglio dalla Salina di Miliati, quando fu in un luogo ove si dice il cancello di Frea, gli fu sbarbicata con tutte le sue radici la lingua”.Questo bel tipo di don Rodrigo nostrano governò, per ben 56 anni, sino a tardissima vecchiaia morendo nell’agosto del 1731.Gli succedeva il figlio Leonardo che moriva dopo pochi anni nel 1734. Terzo ed ultimo Duca di Verzino, diventò Niccolò II che si rivelò della stessa indole dei suoi antenati “serie di tirannelli ed aguzzini l’uno peggiore dell’altro”. Si racconta che percosse in così violento modo il sacerdote don Antonio Cavallo, fratello dell’Arciprete della Terra di Verzino, sol perché non aveva immediatamente eseguito un suo ordine.Bersagliò poi le famiglie più in vista per censo, gli Scerra, i Cavallo, i Figoli, che furono costrette a cercare rifugio nei paesi vicini. Dette famiglie avevano subito e subivano prepotenze ed umiliazioni, ma ciò non faceva che accrescere il loro odio magnificamente simulato. Ritorneranno a Verzino quando, dopo non molto e con il loro aiuto, il Feudo veniva confiscato al Duca Cortese e passava al Regio Fisco.“Come i nobilucci verzinesi rodevano il freno, anche nel popolino si notava un certo incoraggiante risveglio e in Verzino e nei paesi vicini.” Si racconta che il giovane Duca volle, un giorno, sperimentare la mansuetudine dei Carfizzoti, allorché “per la sommossa di quei terrazzani, al comando dei militi, venne inviato in quel paese. La plebe di quel villaggio albanese, stanca delle sue prepotenze, lo assalì nella casa della famiglia Basta, ove aveva preso stanza e, non potendo averlo fra le mani perché barricatosivi, ammucchiò contro l’uscio delle fascine dandovi fuoco. Al crepitare dell’immane fiammata, il Duca Nicola si vide perduto ed allora, contando sul profondo sentimento religioso di quel popolo, scese da una finestra, tenendo fra le mani un quadro della Beata Vergine e con questo implorò perdono. Lo stratagemma riuscì...” e gli salvò la pelle!Il Duca era anche un uomo a cui piaceva il lusso e lo sfarzo. Per mania di grandezza fece eseguire diverse opere, per cui si ebbe l’impressione che Verzino nascesse a nuova vita. La coorte ducale era allietata poi dalla presenza di una nobile e bella Principessa, donna Violante Minutoli, di appena 23 anni, di illustre famiglia messinese che aveva già dato al suo consorte 2 figlioletti, Clelia di anni 9 e Giuseppe Antonio di anni 6. La principessa, perciò, era diventata Duchessa di Verzino all’età di 14 anni circa.Don Nicola fu duca di Verzino fino alla venuta di Re Carlo III di Borbone, per decreto del quale il Feudo gli veniva confiscato sotto l’accusa gravissima di “fellonia” Così ce lo racconta il sacerdote Rotundo nel citato manoscritto: “Dopo l’occupazione del regno di Napoli da parte di Re Carlo III Borbone, unironsi il Principe di Monteleone (odierna Vibo Valentia), il Principe di Cariati ed il Duca Cortese di Verzino per tentare, come diremmo noi, un colpo di stato a favore dei passati dominatori (gli Austriaci). La congiura fu scoperta e Re Carlo intimò ai ribelli di presentarsi a lui per discolparsi. I due Principi obbedirono e furono perdonati; il Duca, fiero e sdegnoso, si ricusò onde fu dichiarato contumace e nemico dello Stato. Il Re, poi, impermalito dal suo modo di procedere, mandò i suoi soldati ad arrestarlo e a confiscare il feudo. Il Duca, vedendosi in cattivo partito, fuggì. Sarebbe caduto in mano dei suoi odiati nemici se, per consiglio di uno dei monaci del Convento di San Domenico di Verzino, non fosse ricorso all’espediente di Caco: ferrare il suo mulo con i ferri all’opposto, in modo che i soldati, ingannati dalle piste, non lo avessero cercato nel luogo donde era fuggito. Pervenuto poi a Salerno, veniva di nuovo scoperto e si salvò, ancora una volta, travestendosi da Vescovo. Dopo fu in Ungheria, né più nulla si seppe di lui. I soldati borbonici, pervenuti in Verzino, presero possesso del palazzo e dell’intero feudo, compresa la Fratta ove il Duca teneva la sua caccia riservata. La povera e sconsolata Principessa, donna Violante, fu maltrattata ed inviata a Messina, sua città natale”.Quale fosse la vera ragione che spinse il Duca Niccolò Cortese alla lotta ad oltranza contro il re Carlo III, ce lo rivela il suindicato storico Salvatore Spiriti: “...si lasciò adescare dalla propaganda austriaca per aver dato fondo ad ogni suo avere nei bagordi e nel lusso e perciò sperava di migliorare la sua sorte giocando in politica”. Per sua disgrazia e per fortuna dei nostri avi, puntò tutto sul cavallo perdente...Concludendo ci piace far conoscere cosa ne pensassero, quali maggiori interessati, i nostri padri, del Duca ribelle, Nicola Cortese. In un modesto foglio che si accompagna al Catasto Onciario del 1753, conservato nell’Archivio di Stato di Napoli, si lamentavano del feroce sfruttamento e delle vessazioni subite ad opera del loro Feudatario che, “per la sua cattiveria”, aveva meritatamente perduto il Feudo.Il popolino, da parte sua e con la solita mordace ironia, compose e canticchiò:“U Ruca i Verzina è male natu,E’ male natu e di mala natura...Mo puru Marcu ‘Rande c’è chiavatu,chi piglia ppe ra capu, chi ppe ra cuda...”dove “male natu e di mala natura” significa che Niccolò Cortese discendeva da una pessima schiatta ed era di indole malvagia. Marco Grande, infine, era il ducale guardiano della Fratta. In tutto simile al suo padrone, “teneva un piede di bove , fatto di legno, col quale imprimeva delle orme bovine sul terreno affidato alla sua custodia. Dopo inveiva contro i massari e i bovari dei dintorni, contestando loro il pascolo abusivo...In tal modo, contando sul timore di quei tapini, arrotondava le sue entrate.”E’ questa, in sintesi, la storia feudale di Verzino ed anche la dolorosa storia di molti paesi della nostra Calabria. http://www.galkroton.it/verzino/default.asp

Verzino,casale di Cariati

Verzino come Casale di Cariati
“Come Casale di Cariati ne seguì le vicende feudali, passando dai Sangiorgio (1291), ai Ruffo (1417), a Gerolimo, Visconte da Cariati (1479), agli Spinelli che nel 1668 lo alienarono ai Cortese.”http://www.galkroton.it/verzino/default.asp

venerdì 12 dicembre 2008

Verzino kr-Le origini

Si vuole sia l’antica Vertinae, edificata dagli Enotri o da Filottete, eroe greco che, secondo una leggenda , dopo la caduta di Troia, giunse con i suoi uomini nei territori della presila e fondò assieme a Chone, altri piccoli centri tra cui Vertinae. Se ne trova menzione negli scritti dello storico greco Strabone.Verso il 500 a.C. Verzino passò dalla dominazione dei Sibariti a quella dei Crotoniati i quali, giunti nel paesello, “sfruttarono le miniere di ferro, di zolfo e d’argento nonché cave d’alabastro e una sorgente d’acqua sulfurea ivi esistenti. Il territorio andava ancora rinomato per la terra chiamata Ripoli con cui venivano pulite le gioie, e per le erbe medicinali. Abbondante era pure la selvaggina nelle sue montagne”. All’epoca i Verzinesi vivevano nelle piccole pantalitiche, ripiani di grotte collegate da piccoli sentieri, che tuttora si possono osservare sul fianco occidentale della collina detta Sperone dove è racchiuso il centro storico.http://www.galkroton.it/verzino/default.asp

mercoledì 10 dicembre 2008

Al più presto renderemo operativo a tutti gli effetti questo blog,con la speranza di renderlo un punto di ritrovo per tutti gli internauti Verziniani, in loco e sparsi per tutto il cosmo, a presto

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