Il convento dei domenicani di Verzino, diocesi di Cerenzia, sorgeva nel luogo detto "Il Campo", poco distante dal palazzo baronale. La località è così descritta a metà Settecento: "La terra di Verzino sta situata in Provincia di Calabria Citra, edificata sopra di uno spazioso risalto di pietra tufo, avanti del quale nell’andarvi vi è un bel largo piano denominato il Campo con fontana diruta nel mezzo… nel principio del quale, ed immediatamente sopra del medesimo si trova edificato il palazzo baronale".
La Fondazione
Dopo che l’università nel 1537 con parlamento pubblico aveva dato il suo assenso, il 30 agosto 1543 il convento di Santa Maria della Grazia della terra di Verzino fu approvato dal priore e dai canonici della chiesa di San Giovanni in Laterano di Roma e per loro da Fra Giovanni Soldato di Squillace. Era provinciale dell’ordine dei predicatori della Provincia di Calabria Fra Girolamo di Monteleone1.
In conseguenza di tali atti il convento riscuoteva ancora a metà Seicento ogni anno scudi 20 sul dazio della carne e del pesce e cinque tomoli di grano, quest’ultimi come aiuto per la fabbrica del convento, concessi dall’università di Verzino, e versava alla chiesa di San Giovanni in Laterano due libre di cera bianca lavorata.
Il convento all’inizio del Seicento
Poche le notizie sul piccolo convento durante il Cinquecento. Esso non aveva grandi proprietà ed era abitato da due o tre frati.
Nelle relazioni ed in una lettera, datata Verzino 20 gennaio 1622, inviate alla Santa Sede dal vescovo delle due diocesi unite di Cerenzia e Cariati, Maurizio Ricci (1619 – 1626), così è descritto: vi è "un convento di frati di San Domenico qual sta a un tiro di balestra fuor della terra sudetta… ha una chiesa assai buona et bella, et la fabrica sua consiste in un braccio solo di fabrica, nel quale vi saranno sei stanziotte piccole et una sacrestia un puoco più grande ad alto; et a bascio vi saranno altre tante, che servono per cocina, cantina et stalla, con una cisterna avanti. Altra fabrica non vi è. Tiene d’entrata detto convento da circa ottanta docati un anno per l’altro, et vi sta solamente un frate con un terzino, il quale non solo non apporta utile a quest’anime (perché non confessa, non sermoneggia, ne predica) ma danno et ruina grande, perche fuggono la chiesa Matrice, dove s’insegna la dottrina christiana, si sermoneggia et se fanno l’altre funtioni pertinenti alla cura; et vanno a sentire la messa del detto frate, il quale la dice puoco prima della messa cantata della chiesa matrice. Per il che ne nasce questo inconveniente, che qui et in tutti luochi della diocese dove sono questi conventini ne figlioli, ne giovani, ne vecchi et così anco le donne sanno ne pater noster, ne ave maria, ne credo, et con tutta la diligenza usata, non ho potuto ridurli ad andare alla dottrina chrisriata, et non ho potuto trovar altro remedio, che inter missar. solemniu. Far che il curato dichi qualche cosa sopra la dottrina christiana, ma indarno". Dalla lettura traspare il conflitto esistente tra la chiesa locale ed il piccolo e povero convento. Un solo frate riesce ad attrarre ed ad accogliere la maggior parte dei fedeli, i quali "fuggono" la chiesa principale e ne disertano le funzioni sacre e la dottrina cristiana, preferendo invece sentire la messa del frate, il quale è accusato di concorrenza sleale, infatti, come per un dispetto, "la dice puoco prima della messa cantata della chiesa matrice". Il vescovo Ricci, in verità, aveva trovato un benefattore, che donava alcuni beni stabili con una sostanziosa rendita con la condizione che fosse eretto un seminario a Verzino e si utilizzasse per tale scopo gli edifici del convento domenicano. Egli premeva perciò i suoi superiori, perché si sopprimesse il convento domenicano di Verzino. Trasferendo ed unendo i suoi beni a quelli del convento domenicano di Cerenzia, che possedeva poche rendite e vi era un solo frate, quest’ultimo avrebbe potuto ospitare una comunità più numerosa di frati. In quanto poi al convento domenicano di Verzino, aggiungeva, la sua trasformazione in seminario non avrebbe causato nessun danno in quanto al momento "non serve per altro, se non che alle volte passa qualche forastiero, et non sapendo dove alloggiare, se ne va al detto convento, quando però il frate vuol fare la carità"
Nelle relazioni ed in una lettera, datata Verzino 20 gennaio 1622, inviate alla Santa Sede dal vescovo delle due diocesi unite di Cerenzia e Cariati, Maurizio Ricci (1619 – 1626), così è descritto: vi è "un convento di frati di San Domenico qual sta a un tiro di balestra fuor della terra sudetta… ha una chiesa assai buona et bella, et la fabrica sua consiste in un braccio solo di fabrica, nel quale vi saranno sei stanziotte piccole et una sacrestia un puoco più grande ad alto; et a bascio vi saranno altre tante, che servono per cocina, cantina et stalla, con una cisterna avanti. Altra fabrica non vi è. Tiene d’entrata detto convento da circa ottanta docati un anno per l’altro, et vi sta solamente un frate con un terzino, il quale non solo non apporta utile a quest’anime (perché non confessa, non sermoneggia, ne predica) ma danno et ruina grande, perche fuggono la chiesa Matrice, dove s’insegna la dottrina christiana, si sermoneggia et se fanno l’altre funtioni pertinenti alla cura; et vanno a sentire la messa del detto frate, il quale la dice puoco prima della messa cantata della chiesa matrice. Per il che ne nasce questo inconveniente, che qui et in tutti luochi della diocese dove sono questi conventini ne figlioli, ne giovani, ne vecchi et così anco le donne sanno ne pater noster, ne ave maria, ne credo, et con tutta la diligenza usata, non ho potuto ridurli ad andare alla dottrina chrisriata, et non ho potuto trovar altro remedio, che inter missar. solemniu. Far che il curato dichi qualche cosa sopra la dottrina christiana, ma indarno". Dalla lettura traspare il conflitto esistente tra la chiesa locale ed il piccolo e povero convento. Un solo frate riesce ad attrarre ed ad accogliere la maggior parte dei fedeli, i quali "fuggono" la chiesa principale e ne disertano le funzioni sacre e la dottrina cristiana, preferendo invece sentire la messa del frate, il quale è accusato di concorrenza sleale, infatti, come per un dispetto, "la dice puoco prima della messa cantata della chiesa matrice". Il vescovo Ricci, in verità, aveva trovato un benefattore, che donava alcuni beni stabili con una sostanziosa rendita con la condizione che fosse eretto un seminario a Verzino e si utilizzasse per tale scopo gli edifici del convento domenicano. Egli premeva perciò i suoi superiori, perché si sopprimesse il convento domenicano di Verzino. Trasferendo ed unendo i suoi beni a quelli del convento domenicano di Cerenzia, che possedeva poche rendite e vi era un solo frate, quest’ultimo avrebbe potuto ospitare una comunità più numerosa di frati. In quanto poi al convento domenicano di Verzino, aggiungeva, la sua trasformazione in seminario non avrebbe causato nessun danno in quanto al momento "non serve per altro, se non che alle volte passa qualche forastiero, et non sapendo dove alloggiare, se ne va al detto convento, quando però il frate vuol fare la carità"
A metà Seicento
Bisognerà attendere la metà del secolo per avere notizie più dettagliate sul convento, questa volta dagli stessi frati. L’otto marzo 1650, il frate Santo di Campana, vicario, ed il frate Girolamo Verso di Bisignano, lettore, in esecuzione della Costituzione di Innocenzo X, compilavano la relazione sullo stato del convento. Da essa si apprende che la struttura del convento era rimasta immutata, mentre risultavano più che raddoppiate le entrate.
La chiesa era lunga palmi 90 e larga 40 con un coro quadrato di palmi 42 di lato. Tredici stanze, parte sopra e parte sotto, formavano il convento, abitato di solito da due o tre frati, un laico ed un oblato. Al momento vi erano i frati Santo di Campana (vicario) e Girolamo Verso di Bisignano, il laico Marco Salerno di Castelvetere e l’oblato Gio. Domenico Tosto di Caloveto. Il convento era circondato da mura al di là delle quali si estendeva una "possessione" con numerosi alberi da frutto, di cui usufruivano gli stessi frati. I quali possedevano circa duecento tomolate di terre, tra seminative e boscose, solo in parte coltivate per la mancanza di coloni. Dal loro affitto di solito venivano 25 tomoli di grano, che rappresentavano solo il 12% delle entrate. Maggiori cespiti in denaro davano i censi che i frati esigevano da terreni , case e cappelle (circa il 30%) ed ancor di più le elemosine in grano, vino, olio e latticini (circa il 40%). Seguiva l’entrata del dazio sulla carne e sul pesce, concessa a suo tempo ai frati dall’università (10%), l’affitto delle fronde dei gelsi, delle castagne e degli erbaggi (5%) e da ultimo le "processioni de morti, litanie, messe et altre opere pie" (3%). Il tutto formava in media un introito annuo di poco più di 205 scudi romani. Le spese se ne andavano per più della metà per vitto e vestiario, quasi un quarto per i lavori di restauro e di riparo del convento ed il resto per le contribuzioni (alla chiesa di San Giovanni in Laterano, alla mensa vescovile, alla corte principale di Cariati, al padre ed al Capitolo provinciale), per le spese di culto ( cera, incenso, olio per le lampade ecc.) e per le suppellettili di casa. Complessivamente ad una spesa media annua, calcolata negli ultimi sei anni, di circa 105 scudi corrispondeva un’entrata di circa 205 scudi, con un attivo quindi di quasi 100 scudi. L’attivo era reso più evidente dal fatto che gli estensori, evidentemente nel tentativo di sfuggire alla chiusura, avevano calcolato le spese di vitto solo per un frate, mentre nella relazione ne figuravano quattro.
La chiesa era lunga palmi 90 e larga 40 con un coro quadrato di palmi 42 di lato. Tredici stanze, parte sopra e parte sotto, formavano il convento, abitato di solito da due o tre frati, un laico ed un oblato. Al momento vi erano i frati Santo di Campana (vicario) e Girolamo Verso di Bisignano, il laico Marco Salerno di Castelvetere e l’oblato Gio. Domenico Tosto di Caloveto. Il convento era circondato da mura al di là delle quali si estendeva una "possessione" con numerosi alberi da frutto, di cui usufruivano gli stessi frati. I quali possedevano circa duecento tomolate di terre, tra seminative e boscose, solo in parte coltivate per la mancanza di coloni. Dal loro affitto di solito venivano 25 tomoli di grano, che rappresentavano solo il 12% delle entrate. Maggiori cespiti in denaro davano i censi che i frati esigevano da terreni , case e cappelle (circa il 30%) ed ancor di più le elemosine in grano, vino, olio e latticini (circa il 40%). Seguiva l’entrata del dazio sulla carne e sul pesce, concessa a suo tempo ai frati dall’università (10%), l’affitto delle fronde dei gelsi, delle castagne e degli erbaggi (5%) e da ultimo le "processioni de morti, litanie, messe et altre opere pie" (3%). Il tutto formava in media un introito annuo di poco più di 205 scudi romani. Le spese se ne andavano per più della metà per vitto e vestiario, quasi un quarto per i lavori di restauro e di riparo del convento ed il resto per le contribuzioni (alla chiesa di San Giovanni in Laterano, alla mensa vescovile, alla corte principale di Cariati, al padre ed al Capitolo provinciale), per le spese di culto ( cera, incenso, olio per le lampade ecc.) e per le suppellettili di casa. Complessivamente ad una spesa media annua, calcolata negli ultimi sei anni, di circa 105 scudi corrispondeva un’entrata di circa 205 scudi, con un attivo quindi di quasi 100 scudi. L’attivo era reso più evidente dal fatto che gli estensori, evidentemente nel tentativo di sfuggire alla chiusura, avevano calcolato le spese di vitto solo per un frate, mentre nella relazione ne figuravano quattro.
Chiusura, riapertura, soppressione.
In esecuzione della Costituzione di Innocenzo X il 24 ottobre 1652 veniva emanato l’elenco dei piccoli conventi domenicani da chiudere e tra questi vi era anche quello di Verzino4. Non passerà tuttavia molto tempo che esso riaprirà, anche se sarà soggetto alla giurisdizione ed alla visita vescovile. Così si esprime in una sua relazione il vescovo Geronimo Barzellino (1664 - 1688) : Nelle due diocesi ci sono solamente quattro piccoli conventi maschili, dei quali tre sia per le poche rendite o per non aver sei religiosi , sono sotto la mia giurisdizione, il rimanente pur avendo sei religiosi, ma non di matura e provata vita, come richiesto dalla bolla di Innocenzo X, è anch’esso soggetto all’ordinario5. Il monastero rimase più o meno nella stessa maniera ed abitato da due o tre frati per tutto il Settecento. All’inizio del Settecento, tra il 1726 ed il 1729, ospitò il cosentino Domenico Longo, conoscitore di varie lingue, erudito nelle sacre scritture e valente predicatore6. All’atto di soppressione, avvenuta ai primi dell’Ottocento durante il Decennio francese, ospitava solo un sacerdote ed un laico7. Soppresso il convento rimase la piccola chiesa che, come si legge in un recente scritto di Pericle Maone, è stata anni fa restaurata, "perdendo le cappelle laterali e tutto quanto potesse ricordare i tempi andati. Sul suo frontespizio è rimasto unico retaggio, uno stemma: un leone affrontato ad un albero che sembra una quercia".
Il convento in una descrizione di metà Settecento
Nell’apprezzo della terra di Verzino compilato nel 1760 dall’Ing. tavolario Giuseppe Pollio troviamo una descrizione dettagliata del convento. "Vi è nella med. Terra un convento de’ PP. Domenicani, che trovasi sito nel piano detto il Campo poco distante dal Palazzo Baronale; tiene la sua porta verso detto largo per cui si entra in un picciolo coverto, in testa del quale vi è la Congregazione de’ laici sotto il titolo della Beata Vergine del Rosario, consistente d’un bel comodo Vaso col pavimento di mattoni, covertura di tavole liscie dipinte con tetto al di sopra, nei lati vi sono i sedili con spalliere di tavole per i fratelli in tempo tengono Congregazione, ed in testa vi è l’altare ben ordinato con suo quadro, e cona dipinta, questa congregazione viene mantenuta colle mesate, che pagano i fratelli, e sorelle laici, con quali non solamente la forniscono di tutt’i suppellettili necessari, ma eziandio vi sostengono la messa ne’ giorni festivi, ed anco de’ suffragi per i fratelli e sorelle defunti, essendovi il jus della sepoltura. Si esce poi dal cennato piccolo coverto da man sinistra nel chiostro ben grande tutto scoverto, ma rustico con cisterna nel mezzo, a man destra di esso, vi è un vacuo per magazzino, nell’angolo di detto lato vi è grada di fabbrica nuova fatta, accosto essa vi è porta, che per grada di fabbrica con quattro scalini si cala nell’officina della cucina, refettorio, e cantina. Salendo per la cennata grada nuova mediante dieci gradi si ascende al primo ballaturo, a destra vi è porta, d’onde si passa in un corridoro antico col pavimento di mattoni, e covertura di tavole liscie, lateralmente vi sono cinque celle, il camerino per li comuni, ed a sinistra vi è luogo dove stan situate due campane, indi siegue la grada, e dal cennato ballatoro con 14 gradi s’impiana nell’altro piano nuovo consistente di un corridoro astricato nel suolo, con covertura di tavole liscie, ed il tutto coverto al di sopra con tetti. Vi sono quattro stanze per comodo de’ PP. Con tutto il bisognevole, essendovi alligato un poco di giardino, ed ortolizio, che li sta alle spalle, e questo serve per uso dell’istesso convento. La chiesa poicché trovasi accosto, e laterale al descritto chiostro tiene parimenti la porta verso il cennato spiazzo detto il Campo esposta a tramontana, per la quale si entra in una nave ben grande col pavimento lastricato, e covertura di tavole liscie dipinte, con tetto al di sopra. In testa della nave vi è l’Altare mag. col quadro della B. Vergine del Rosario, con due altari laterali. A sinistra dell’entrare in faccia al muro vi sono cinque cappelle, la prima, che ave il suo fondato sotto il titolo della B. Vergine del Rosario, ch’è antica. La seconda sotto il titolo di S. Vincenzo Ferreri, essendovi la sua statua. La terza sotto il titolo di S. Domenico. La quarta sotto il titolo della Vergine SS. della Concezione de’ Paesani detta di suor Orsola della città di Napoli, ch’è cappella gentilizia del mag.co Antonio Giuranda, dotata di alcune possessioni, della di cui rendita se ne celebrano tante messe, quanto ne sono capienti alla ragione di grana dieci l’una, e la quinta, che parimenti ave il suo fondato con ferriato avanti, sotto il titolo di S. Giuseppe, è gentilizia del Duca di detta terra di Verzino, avendoci la propria sepoltura, ma di niuna rendita è dotata. Nel lato destro vi sono altre cinque cappelle, delle quali la prima entrando sotto il titolo della Circoncisione del Signore. La seconda sotto il titolo di S. Rosa ius patronato di Alessio Izzolino, di cui è propria la sepoltura. La terza sotto il titolo del SS. Sagramento della famiglia Tibaldi. La quarta parimenti sotto il titolo della Beata V. del Rosario; e la quinta del SS. Crocifisso anco gentilizia di don Antonio Giuranda, e delle due cennate cappelle laterali all’Altare Maggiore quella in cornu evangeli ha il titolo di S. Giacinto, e quella in cornu epistole di S. Maria del Campo gentilizia della casa Magari. Tutte dette cappelle hanno i di loro quadri con suppellettili, e dietro l’altare maggiore predetto vi è la sacrestia con stipi, e banconi, dove li RR. PP. Conservano tutti li vasi, vesti, ed ornamenti necessari, che bisognano al buon culto, e mantenimento di detta chiesa. Al presente il convento predetto sostiene tre PP. Sacerdoti, un laico, ed un figliuolo per la cucina, con 5 garzoni per loro servizio, e del convento predetto.La sua entrata ascende ad annui ducati 400 in circa, che si compongono di varii stabili, e censi tanto ordinarii, quanto estraordinari, e con essi deve soddisfare i pesi così del vitto necessario per detti PP., come della celegrazione di 21 messe il mese, d’annui ducati 12 di bonatenenza, e le spese per le feste del SS. Rosario e S. Vincenzo Ferreri,facendo essi anche la processione. In detta chiesa dicesi il rosario da’ cittadini, e v’intervengono assistiti da detti PP. 3 giorni di ogni settimana, oltre il farsi tutte quelle annuali funzioni, che la Santa Chiesa precetta".
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